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La vita di un singolo essere umano, così come la vita di una famiglia o di un intero popolo, persiste come ricordo. Il mio popolo deve giungere a considerare questo come parte integrante del suo processo di maturazione. Un popolo dev’essere considerato come un vero e proprio organismo, e in questo persistere dei ricordi, appunto, viene immagazzinata una quantità sempre maggiore di esperienze, come in un grande serbatoio subliminale. L’umanità spera di potersi servire di questo materiale, se esso si rivelasse necessario per affrontare un universo in perenne mutamento. Ma molto di ciò che viene immagazzinato può essere perduto in quel fortuito gioco di eventi che noi chiamiamo «fato». E molto potrebbe non venir integrato in questa sostanziale evoluzione, e di conseguenza non esser valutato nella sua effettiva importanza e attivato dai mutamenti ambientali in continuo divenire che affliggono la carne. Anche una specie vivente può dimenticare! Ma c’è una speciale qualità dello Kwisatz Haderach che il Bene Gesserit non ha mai sospettato: lo Kwisatz Haderach non può dimenticare!
– Il libro di Leto
secondo Harq al-Ada
Stilgar non riusciva a spiegarsi il perché, ma quell’osservazione priva d’importanza di Leto aveva provocato in lui una profonda inquietudine. Continuò a riecheggiargli nella mente per tutta la strada, fino a Sietch Tabr, sovrastando ogni altra cosa che Leto aveva detto, là fuori sull’Attendente.
In verità, quell’anno le giovani donne di Arrakis erano molto belle. E anche i giovani. I loro volti sereni sprizzavano acqua da ogni poro. I loro occhi guardavano verso l’esterno, lontano. Spesso esponevano i propri lineamenti, senza nasconderli dietro le maschere delle tute e dei tubi. Anzi, spesso neppure indossavano le tute, quand’erano all’aperto, preferendo i nuovi indumenti che, quand’essi si muovevano, delineavano fuggevolmente gli agili corpi sottostanti.
Questa umana bellezza veniva paragonata alla nuova bellezza del paesaggio. In contrasto col vecchio Arrakis, l’occhio restava incantato da questo o quel ciuffo di ramoscelli verdeggianti che spuntavano tra le rocce rosso-bruno. E le vecchie tane dei sietch, con la loro cultura sviluppatasi nelle caverne-città, complete di complicati sigilli e trappole per l’umidità ad ogni imboccatura, cedevano il passo ai villaggi all’aperto, spesso edificati con mattoni di fango. Mattoni di fango! Perché mai volevo che quel villaggio fosse distrutto? E incespicò, mentre avanzava.
Egli sapeva di appartenere a una razza in via di estinzione. I vecchi Fremen contemplavano a bocca spalancata la meravigliosa prodigalità del loro pianeta… acqua che veniva sprecata nell’aria soltanto perché con essa era possibile modellare mattoni e costruire case! L’acqua ora usata per il sostentamento di una sola famiglia avrebbe mantenuto in vita un intero sietch per un anno.
I nuovi edifici avevano perfino finestre trasparenti che lasciavano passare il calore del sole e disseccavano i corpi all’interno. E queste finestre si aprivano verso l’esterno.
I nuovi Fremen nelle loro case di fango potevano guardar fuori, il panorama. Non erano più rinchiusi e ammassati in un sietch. Là, fin dove arrivava la nuova vista, arrivava anche l’immaginazione. Stilgar lo sentiva in modo quasi palpabile. Questa nuova vista univa i Fremen al restante Universo Imperiale, li condizionava allo spazio senza confini. Un tempo essi erano stati indissolubilmente legati ad Arrakis, alla sua povertà d’acqua, schiavi delle sue dure necessità. Essi non avevano condiviso l’apertura mentale che condizionava gli abitanti della maggior parte dei pianeti dell’Impero.
Stilgar vedeva chiaramente tutti questi cambiamenti, cogliendo il loro doloroso impatto con i suoi dubbi e le sue paure. Ai vecchi tempi, era assai raro che un Fremen prendesse anche soltanto in considerazione la possibilità di lasciare Arrakis per iniziare una nuova vita su uno dei mondi ricchi d’acqua. Non era neppure consentito il sogno della fuga.
Fissò il ritmico movimento della schiena di Leto, davanti a lui. Leto aveva parlato di drastiche proibizioni ad ogni movimento migratorio fuori del pianeta. Be’… quella era sempre stata una realtà anche per la maggior parte degli abitanti degli altri mondi, perfino là, dove il sogno era consentito come valvola di sicurezza. E la schiavitù planetaria aveva raggiunto il suo apice lì su Arrakis. I Fremen si erano rivolti verso l’interno di se stessi, barricandosi nella loro mente come si erano barricati nelle loro tane, dentro le caverne. Lo stesso significato di «sietch» – un rifugio per i momenti di pericolo – era stato qui stravolto in quello di un mostruoso luogo di confino per un’intera popolazione.
Leto aveva detto la verità: Muad’Dib aveva cambiato tutto questo.
Stilgar si sentì perduto. Le sue vecchie credenze andavano in frantumi. La nuova visione centrifuga dell’esistenza dava agli esseri umani la frenesia di abbattere ogni confine.
Come sono belle le ragazze quest’anno…
Le antiche abitudini (le mie abitudini! confessò a se stesso) avevano costretto il suo popolo a ignorare tutta la storia dell’umanità, eccettuato quella ripiegata all’interno, i loro travagli. I vecchi Fremen avevano letto soltanto la storia che parlava delle loro terribili migrazioni, delle loro fughe da una persecuzione all’altra. Il vecchio governo planetario aveva seguito la politica ufficiale del suo Impero: aveva soppresso la creatività, cancellando totalmente ogni progresso o evoluzione. La prosperità altrui aveva costituito il peggior pericolo per il vecchio Impero e per coloro che avevano in pugno il potere.
Con un improvviso sbigottimento, Stilgar si rese conto che quelle identiche cose erano ugualmente pericolose per il nuovo corso che Alia stava consolidando.
Stilgar tornò a incespicare e restò ancora più indietro rispetto a Leto. Nelle antiche religioni, nelle vecchie abitudini, non c’era stato alcun futuro, soltanto un interminabile adesso. Stilgar si accorse che, prima di Muad’Dib, i Fremen erano stati condizionati a credere nel fallimento, e mai nella possibilità di un successo. Sì… avevano creduto in Liet-Kynes, ma egli aveva previsto un arco temporale di quaranta generazioni. Quello non era un successo; era un sogno che, ora se ne accorse, si era ugualmente rivolto all’interno delle loro coscienze.
Muad’Dib aveva cambiato tutto questo.
Durante il Jihad, i Fremen avevano imparato molto sul vecchio imperatore Padiscià, Shaddam IV. L’ottantunesimo Padiscià della Casa di Corrino a sedere sul Trono del Leone d’Oro e a regnare su quell’impero d’innumerevoli mondi si era servito di Arrakis come di un terreno sperimentale per la politica che aveva sperato di applicare, poi, al resto del suo impero. I suoi governanti planetari avevano coltivato tra la gente di Arrakis un persistente pessimismo, per ampliare le basi del loro potere. Avevano fatto in modo che tutti, su Arrakis, persino i Fremen che erano liberi di andare dovunque, venissero a conoscenza dei numerosi casi d’ingiustizia e dei problemi insoluti; tutti gli abitanti di Arrakis erano stati abituati a pensare a se stessi come ad un popolo senza speranza, per il quale non vi sarebbe stato, mai, alcun soccorso.
Come sono belle le ragazze quest’anno!
Mentre fissava la schiena di Leto che rimpiccioliva in distanza davanti a lui, Stilgar cominciò a chiedersi come il ragazzo fosse riuscito a suscitare in lui tutti quei pensieri lasciando cadere quella che sembrava una semplice frase senza importanza. E proprio a causa di questa frase, Stilgar si trovò a considerare Alia e il suo ruolo nel Consiglio in un modo completamente diverso.
Ad Alia piaceva dire che le vecchie abitudini faticavano a perdere terreno. Stilgar confessò a se stesso di aver sempre considerato questa affermazione vagamente rassicurante. I cambiamenti erano pericolosi. Le novità dovevano esser soppresse. Le volontà individuali dovevano essere negate. Quale altra funzione aveva il clero, se non quella di cancellare la volontà del singolo?
Alia continuava a sostenere che le possibilità di una libera concorrenza dovevano esser ridotte entro limiti ristretti, facilmente controllabili. Ma questo significava che la ricorrente minaccia della tecnologia poteva essere usata soltanto come pretesto per arginare le popolazioni… proprio com’era servita ai suoi antichi padroni. E l’unica tecnologia consentita doveva far parte integrante, ufficiale, dei rituali. Altrimenti… altrimenti… Ancora una volta Stilgar incespicò. Ma era giunto ormai al qanat e vide che Leto si era fermato ad aspettarlo sotto la piantagione di albicocchi che cresceva lungo i bordi dell’acqua. Stilgar sentì i suoi piedi farsi strada sull’erba non falciata.
Erba non falciata!
Che cosa mai posso ancora credere? si chiese Stilgar.
Era giusto che un Fremen della sua generazione credesse ancora che gli individui abbisognassero di una profonda consapevolezza delle loro limitazioni. Le tradizioni erano indubbiamente la forma più efficace di controllo per una società stabile. La gente doveva conoscere i confini del proprio tempo, della propria società, del proprio territorio. Che cosa poteva esserci di sbagliato nel sietch, come modello di pensiero? Il senso del limite, di una recinzione invalicabile, avrebbe dovuto pervadere ogni scelta individuale, e altresì quelle della famiglia, della società, e ogni passo intrapreso correttamente da un governo.
Stilgar si fermò e fissò Leto, nel frutteto. Il ragazzo era lì, che lo aspettava, e lo fissava sorridendo.
Certamente sa quant’è in subbuglio la mia mente! pensò Stilgar.
E il vecchio Naib dei Fremen cercò rifugio nel tradizionale catechismo del suo popolo. Ogni aspetto della vita richiedeva un unico modello, la sua intrinseca circolarità si basava sulla segreta, interiore conoscenza di ciò che avrebbe funzionato e di ciò che avrebbe avuto insuccesso. Il modello per una singola vita, per la comunità, per ogni elemento costitutivo di una società più grande, fino al vertice del governo, e oltre… quel modello, dunque, doveva essere il sietch, e il suo corrispettivo nella sabbia: Shai-hulud. Il gigantesco verme era senz’altro una creatura formidabile, ma anch’egli, quand’era minacciato, si nascondeva nelle profondità impenetrabili del deserto.
I cambiamenti sono pericolosi! ripeté fra sé, ostinato, Stilgar. La stabilità e l’uniformità erano i giusti obiettivi di un governo.
Ma i giovani e le ragazze erano belli.
E ricordavano le parole di Muad’Dib, quando aveva deposto Shaddam IV: «Non è la lunga vita dell’Imperatore che io cerco. È la lunga vita dell’Impero.»
Ma non è quello che ho sempre sostenuto anch’io? si chiese Stilgar.
Riprese a camminare, diretto all’ingresso del sietch, leggermente sulla destra di Leto. Il ragazzo si mosse per tagliargli la strada.
Muad’Dib aveva detto anche un’altra cosa, ricordò Stilgar: «Come gli individui nascono, maturano, procreano e muoiono, così fanno anche le società, le civiltà e i governi.»
Pericoloso o no che fosse, il mutamento sarebbe comunque venuto. I bei giovani e le ragazze fremen lo sapevano. Essi potevano guardare fuori di sé e vederlo, e prepararsi ad accoglierlo.
Stilgar fu costretto a fermarsi, altrimenti avrebbe dovuto passare sul corpo di Leto.
Il ragazzo lo scrutò dal basso, come un gufo, e gli disse: – Vedi, Stil? La tradizione non è quella guida assoluta che tu pensavi.